Come Penelope tesseva la tela attendendo il suo Ulisse…io attendendo la mia Camilla, il giorno dopo la scadenza del termine previsto, tessevo la mia prima borsa in fettuccia e tra una contrazione e l’altra e il passare dei giorni senza che nulla succedesse, mi chiedevo se Camilla non avesse intenzione di farmi realizzare un vero e proprio trolley! No beh…all’arrivo della prima contrazione niente di preoccupante..riuscivo a sferruzzare anzi a “crocettare”, come si dice in gergo, tranquillamente e la mia prima creazione in fettuccia procedeva serenamente. Al parto c’ero arrivata tranquillissima. Pensavo “beh ci sono passate tutte” e poi “in giro ci sono mamme con 3 o 4 figli”..”vuoi che non ce la faccia io!”…
Alla luce dei fatti, forse l’avevo presa troppo sotto gamba. Beh andiamo avanti, le contrazioni erano iniziate, ripeto ancora qualcosa di tollerabile e non molto frequente, ma man mano che passavano le ore si intensificavano.
E arrivò il giovedì notte.
Non l’ho mai amata la notte: i pensieri e le preoccupazioni si ingigantiscono, forse una reminiscenza mai risolta della paura del buio che si ha quando si è piccolini. Comunque quel giovedì notte dormire iniziò ad essere difficoltoso (ma che dico dormire, quello sarebbe stato pure fin troppo!); il mio desiderio più grande era semplicemente quello di poter stare almeno sdraiata da qualche parte e invece, dopo aver attraversato la famosa fase narrata anche dai manuali sul parto – quando ti prepari al parto e diciamo così il tuo corpo si libera – il mio rifugio era diventato la doccia. Riuscivo a stare solo lì: seduta, accovacciata, in piedi, attaccata alla parete, con il rischio reale di lì a poco di trasformarmi in una sirena!
Comunque ancora una notte e un giorno potevano essere tollerabili.
La mattina ovviamente sono andata in ospedale ma lì mi hanno mandato sbrigativamente a casa dicendomi che le contrazioni erano solo un pretravaglio e che la fase attiva del travaglio era ancora mooolto lontana.
E così iniziò il secondo giorno in attesa di Te.

“Crocettavo” e quando arrivavano le contrazioni, come una brava allieva, mettevo in pratica ciò che avevo imparato in tre mesi di corso yoga che mi avevano talmente rasserenato l’anima e il corpo da sottovalutare forse ciò che mi stava aspettando. E arrivò ancora notte. Era il 7 settembre, non riuscivo a chiudere occhio neanche a pregare in cinese, anzi in tibetano; l’acqua continuava a scorrere sotto la doccia ed era l’unica a darmi un po’ di sollievo. Mio marito aveva fatto partire tutte le applicazioni possibili e immaginabili dello smartphone di cui mi aveva anche munito in sua assenza e le contrazioni erano registrate e calcolate al secondo.
Aumentavano sì ma continuavano a essere irregolari, ovvero inutili.
Sabato mattina finalmente, un evento che speravo avrebbe dato una svolta alla situazione. Si rompe il famoso tappo mucoso. In realtà, anche da manuale, non era segnalato come uno di quegli eventi che di lì a poco mi avrebbero fatto partorire, eravamo solo all’inizio, ma per me era il segnale che forse qualcosa sarebbe successo . Ma così non fu. Dopo due giorni e due notti senza chiudere occhio, il mio fisico non reggeva. Era sabato, mio marito era a casa e il mio tempo era scandito da docce o da momenti in cui riemergevo dall’acqua e mi aggrappavo a lui, unica posizione che mi permetteva di tollerare i dolori delle contrazioni.
La situazione in casa, mia mamma inclusa, cominciava a essere di tensione. Mi ricordo che sono scattate le prime telefonate alla ginecologa e che lei, la ginecologa, diceva a mia mamma (io non ero in grado di parlare) che avrei dovuto prendere la cosa sul ridere, che si trattava di pretravaglio e che tante sue pazienti in questa fase erano a prendersi il sole in piscina. Insomma come sentirsi una mezza calzetta.
D’accordo non mi sono mai sentita wonder woman, ma neppure una che non tollera il dolore. Cominciavo ad avere delle crisi di identità. Vado ancora in ospedale ma nuovamente mi rispediscono al mittente, io e mio marito ci siamo trasferiti da mia mamma che ha il letto matrimoniale (non in stile futon come il nostro, assolutamente sconsigliato quando ti trovi alle prese con le contrazioni) e soprattutto è munita di spaziosa vasca dove avrei potuto continuare il mio processo di trasformazione di polmoni in branchie e assistere alla comparsa della coda da sirena. Non posso spiegare in che stato fisico mi trovavo a quel punto e ovviamente non sto a dirvi che anche quella è stata una notte in bianco passata tra la sala al piano sotto (per non disturbare nessuno) camminando e respirando (avendo voglia però di urlare) e la vasca da bagno. Ovviamente non riuscivo più a deglutire cibo solido ormai da ore ma a quello neppure ci pensavo. L’unica cosa che pensavo è: “Ma questa bambina vuole uscire o no?” Stavo perdendo le speranze oltre che la forza e la fiducia in me stessa.
Finalmente arrivò la luce..si quella dell’alba. Mi ricordo che mio padre che di solito tende a sdrammatizzare ogni circostanza, alzò la voce: “O adesso la ricoverano, se no vengo io all’ospedale. Questa figlia se andiamo avanti così non mi fa più figli”.
Ripartì allora la carovana per l’ospedale. Ormai io non avevo nessuna voglia di parlare..mi visitarono per l’ennesima volta e visto le condizioni mi ricoverarono in reparto anche se la fase attiva non era ancora iniziata. “Dead woman walking”, questa ero io nella stanza del reparto e come compagna di avventura, una signora cinese appena partoriente che ogni due per tre si sentiva le mie urla disumane. Giuro, non ne potevo più e loro, all’ospedale, non facevano niente per farmi stare meglio.
Intanto mi domandavo: ma se non ero ancora in fase attiva e non avevo più forze, quando sarebbero arrivate le contrazioni vere, come avrei fatto a tollerarle?! Il solo pensiero mi faceva impazzire. Passarono le ore e forse per farmi sperare in qualcosa, l’ostetrica, che mi rassicurava in mille modi, mi disse che a mezzanotte avremmo fatto una visita per vedere la situazione e che se fossi entrata in fase di travaglio attivo mi avrebbero fatto l’epidurale. Anche perché, senza di quella, nelle condizioni in cui ero arrivata, non ce l’avrei fatta.
Arrivò la mezzanotte, la visita e l’arrivo dell’ostetrica che mi disse: “Niente, ancora non siamo alla fase attiva”. Io scoppiai a piangere, ero in crisi nera. Non ne potevo più… giuro a quel punto, con tutta la volontà del mondo anche il Dalai Lama non sarebbe riuscito a trattenersi! L’ostetrica si consulta nuovamente con la dottoressa e alla fine mi dicono che provano a farmi un’iniezione di petidina “per vedere se rilassandomi succede qualcosa”. Se però questa non avesse fatto effetto avrebbero dovuto comunque aspettare almeno 6 ore per potermi fare l’epidurale. Ansia totale ma almeno succedeva qualcosa che mi avrebbe fatto, così dicevano, almeno riposare.
Ma io dico …ci voleva un genio a capire che dopo 4 giorni passati in piedi “forse” ero leggermente contratta e il mio corpo non riusciva a rilassarsi e di conseguenza io a dilatarmi!!??? Come far passare la voglia ad una donna di avere altri figli!
Iniezione di petidina fatta, riesco a chiudere gli occhi mezzora e pure mio marito. Poi tutto d’un tratto, una forte contrazione, e finalmente si rompono le acque. Mi portano subito in sala parto. Camilla stava arrivando non ci potevo credere…ma a quel punto non avrei piu’ tollerato alcun dolore.
In mezzora ero dilatata 5 centimetri.
Le mie gambe sul lettino non reggevano. Chiedo quindi all’ostetrica di turno di farmi stare da qualche altra parte. E sapete dove mi mettono? Su una bella sedia a dondolo. Non vi dico le contrazioni sulla sedia a dondolo che belle! Un’emozione unica. Di lì a poco, quando stavo per cedere e chiedere l’epidurale per i dolori insopportabili, sento arrivare le spinte. L’ostetrica si era assentata un attimo e io che non vedevo l’ora di tirare fuori Camilla l’ho chiamata urlando “Ostetrica….sta uscendoooo!”.
Mi rimettono sul lettino e vi dico che in 4, solo 4 spinte, il mio cucciolo è venuto al mondo! Spingevo anche quando non dovevo farlo tanto non ne potevo più. Nonostante tutto, certo, ne era valsa la pena….però quei ricordi non si cancellano! Anche perché non era esattamente finita. La placenta non è uscita e di lì a poco hanno fatto uscire mio marito con la piccola e mi hanno fatto l’anestesia generale per il secondamento manuale. Insomma un’odissea per tornare all’incipit mitologico del mio racconto (Penelope che tesseva la tela).

Ed eccolo il mio capolavoro. Però quanta fatica mi è costato!
In tutto ciò però pensate che mio marito è riuscito anche a piazzare l’mp3 con casse in sala parto per fare venire al mondo Camilla con le musiche yoga che mi avevano accompagnato in gravidanza, come avevamo deciso. Almeno lei, Camilla, è nata serena! Meno male che non ha sentito i “mantra” che ho urlato per 4 gg quando non si decideva a venire fuori. Mamma un po’ sclerata, ma figlia serena.
Camilla è il più bel capolavoro e il lavoro più ben fatto della mia vita, però sinceramente quando ci ripenso, non so se sia giusto nel 2012 patire così tanto per avere un figlio tanto da farti passare la voglia di averne un altro.
Voi cosa ne pensate?
Raffaella Meazzi, una Mammarisparmio.